Accadde oggi: Idi di marzo, l’assassinio del più grande Imperatore di Roma

Alle Idi di marzo del 44 a.C., Caio Giulio Cesare venne assassinato durante una seduta del Senato.

Ci sono ricorrenze che non tutti conosco e che a mio parere non vanno assolutamente dimenticate. Tra queste non posso non citare l’episodio che coinvolge uno dei miei personaggi storici preferiti a cui devo il mio nome: Caio Giulio Cesare il più grande Imperatore del Mondo! Fu assassinato dai nemici a cui aveva concesso la sua clemenza, dagli amici a cui aveva concesso onori e gloria, da coloro che aveva nominato eredi nel suo testamento. Il popolo di Roma lo pianse e di Cesare fu scritto: “Così egli operò e creò, come mai nessun altro mortale prima e dopo di lui, e come operatore e creatore Cesare vive ancora, dopo tanti secoli, nel pensiero delle nazioni, il primo e veramente unico imperatore” (Th. Mommsen, Storia di Roma antica – Libro V – Cap. XI). Il giorno delle Idi Cesare non si sentiva bene. Calpurnia, sua moglie, aveva avuto dei tristi presentimenti e lo scongiurava di non andare in Senato. Gli indovini avevano fatto dei sacrifici e l’esito era stato sfavorevole. Cesare pensò di mandare Marco Antonio ad annullare la seduta del Senato. Allora i congiurati inviarono Decimo Bruto ad esortare Cesare a presentarsi in Senato perché i senatori erano già da tempo arrivati e lo stavano aspettando. Annullare la seduta a quel punto sarebbe stata un’offesa per i magistrati. Cesare credette a Decimo Bruto, all’amico fedelissimo, addirittura nominato suo secondo erede nel testamento. Verso l’ora quinta, circa le undici del mattino, Cesare si mise in cammino. Lo storico greco Plutarco (II secolo d.C.), in Vita di Cesare riporta una storia da molti raccontata: “Un indovino aveva predetto a Cesare, qualche tempo prima, di stare in guardia, perché un grave pericolo lo minacciava nel giorno delle Idi di Marzo. Le Idi vennero, e Cesare, mentre usciva di casa per recarsi in Senato, salutò l’indovino e gli disse ridendo: “Ebbene? Le Idi di Marzo sono arrivate”; l’indovino gli rispose quietamente: “Sì sono arrivate, ma non sono ancora trascorse” […]. Si diceva anche che poco prima di entrare in Senato un uomo gli avesse passato un biglietto in cui si denunciava la congiura contro di lui, ma che per fatalità Cesare non l’avesse aperto. Tra i congiurati, alcuni appartenevano ai sostenitori di Pompeo, a cui generosamente Cesare aveva risparmiato la vita e gli averi; altri invece erano suoi vecchi amici, mossi da intenti diversi (chi da invidia, chi da rancori personali, chi da un disinteressato attaccamento alla costituzione repubblicana). Tra loro un posto di primo piano era occupato da Marco Giunio Bruto, che Dante metterà nell’Inferno, canto XXXIV, assieme a Caio Cassio, altro congiurato. Effettuò le pratiche religiose previste ed entrò nella Curia. Il console Marco Antonio rimase fuori trattenuto da Trebonio. Cesare era senza la guardia del corpo di soldati ispanici perché poco tempo prima aveva deciso di abolirla. Solo senatori e cavalieri erano i suoi accompagnatori. A questo punto riportiamo il racconto dello scrittore romano di età imperiale Svetonio (70-126) dal suo De Vita Caesarum: «I congiurati si misero attorno a lui quando sedette, come se volessero onorarlo; e subito Cimbro Tillio, che aveva preso l’iniziativa, si avvicinò a lui come se avesse intenzione di chiedergli qualcosa e, dal momento che faceva cenno di no e con il gesto rinviava la questione in un altro momento, gli afferrò la toga da entrambe le spalle. Poi, mentre Cesare gridava: “Questa è violenza!”, uno dei Casca lo ferì un po’ sotto la gola. Cesare afferrò il braccio di Casca e lo trafisse con uno stilo e, dopo aver tentato di correre in avanti, fu trattenuto da un’altra ferita. E quando s’accorse di essere assalito da ogni parte con pugnali sguainati, si avvolse il capo con la toga e nel tempo stesso con la mano sinistra portò giù le pieghe fino ai piedi, per cadere in modo più decoroso dopo aver velato anche la parte inferiore del corpo. E così fu trafitto da ventitré pugnalate, e solo al primo colpo emise un gemito senza dire una parola e all’ultima ad opera di Marco Bruto dove pronunciò la celebre frase: “Tu quoque, Brute, fili mi!” (“Anche tu, Bruto, figlio mio!”). (secondo alcune voci, Bruto era un figlio segreto di Cesare avuto dalla matrona Sempronia). “Giacque a terra privo di vita per un po’ di tempo, mentre tutti fuggivano, finché tre giovani schiavi, dopo averlo posto su una lettiga con un braccio che pendeva, lo riportavano a casa. In tante ferite, come riteneva il medico Antistio, nessuna fu trovata letale tranne quella che aveva ricevuto nel petto al secondo colpo».
Cesare aveva 56 anni. La vigilia delle Idi, discutendo su quale fosse la morte migliore, aveva detto a Marco Lepido “Ad ogni altra ne preferisco una rapida ed improvvisa”. E così era stato. In seguito, la Curia dove era avvenuto l’assassinio venne murata. Le Idi di marzo presero il nome del “Giorno del parricidio” (per parricidio si intende l’omicidio di un parente, anche se è più volte inteso come omicidio del padre). Venne proibito di convocare il Senato in quel giorno. Nel Foro venne innalzata una colonna di marmo con la scritta “Parenti Patriae”, al Padre della Patria.

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Statua di Giulio Cesare a Roma in via dei fori imperiali.

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